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BATTE E BASTA

batteC’è una piaga dilagante che desta giustificata preoccupazione, soprattutto tra i genitori di ragazzi in età scolare. Parliamo del bullismo, cioè del tormento inflitto a minorenni di varie età da parte di compagni crudeli e spietati nell’infierire contro il capro espiatorio di turno. Ora, se cerchiamo di approfondire il fenomeno e di coglierne il tratto essenziale, ci accorgeremo che esso non consiste solo, e tanto, nella violenza, nella cattiveria, nel dileggio, nella umiliazione, bensì nelle qualità umane di chi dispensa le botte, reali o metaforiche, e di chi le subisce. Il bullismo ha, per definizione, due protagonisti: un  gruppo forte e un debole solitario, un piccolo clan di robusti e arroganti furfantelli da una parte e un agnellino indifeso, fragile, impaurito dall’altro. Insomma, la cifra di tutta la faccenda è l’evidente sproporzione di mezzi tra i contendenti. Il che è paradossale: il potente dovrebbe inorgoglirsi nel battere un suo pari o, addirittura, uno di rango più elevato. Lo impone un’etica cavalleresca  elementare, giusto? Invece, no. Adesso, il vanto consiste nello schiacciare gli umiliati e offesi, non nel pungolare i campioni. Premesso che il bullismo è un fatto universale e senza tempo, va tuttavia riconosciuto che ora lo è in modo peculiare e più intenso. Oggi non ha più un connotato di eccezionalità, ma di quasi normalità. E la sua cifra autentica è la vigliaccheria ignobile, la codardia bastarda, l’infame baldanza di chi – sapendo di essere superiore – non solo non ne trae motivo per ergersi a tutore dell’inferiore, ma anzi  ci gode nel mortificarlo e chiama addirittura a testimoni, o a complici, altri lazzaroni consimili. Ma il bullismo non è limitato alle scuole, a ben pensarci. Una miriade di altri fenomeni della contemporaneità sconta una buona dose di bullismo, nel senso sopra inteso, e cioè di prevaricazione della forza sulla debolezza, di una ‘fortezza’ in realtà debole proprio nella misura in cui ha bisogno della debolezza altrui per misurare la propria forza. Alcuni sono più evidenti:  la violenza sulle donne, l’abuso sui minori. In altri, la componente bullista è più sofisticata, si muove sottotraccia, ma la filosofia di fondo dell’atto, nella sua quintessenza brutale, è la medesima.  Pensiamo al terrorismo di assassini armati  su civili disarmati, ma anche all’algido e onnipresente dispiegarsi del Potere Anonimo sui belati inerti delle Masse Democratiche. Potremmo arrivare a dire che il segno discriminante della nostra civiltà, un segno di cui il Novecento si era incaricato di  mostrarci le prime applicazioni su vasta scala, è l’ignobiltà d’animo. Proprio come in altre epoche lo fu la nobiltà. L’ignobiltà d’animo, il colpire e volto coperto, l’incarognirsi contro la vittima indifesa, il voler vincere facile a dispetto delle regole, il fottere rivali incatenati e il fottersene del disonore di cui ci si ricopre. Rientrano a pieno titolo in questa cornice anche l’ossessione della Matrice per il controllo, la mediatica e metodica manipolazione mentale, la distorsione linguistica dei concetti e della verità. Solo che, nel Novecento, il martello calava sui chiodi in nome di un’ideologia, per quanto perversa. Oggi cala e batte in nome di se stesso. Batte e basta.

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