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C’ERA UNA VOLTA

C'ERA UNA VOLTAC’è un filosofo del Novecento, Jean Francois Lyotard, le cui intuizioni andrebbero riaggiornate per come e per quanto sono adatte a descrivere i tempi attuali. L’intellettuale francese fu autore di un’opera (La condizione postmoderna) divenuta in breve un classico del pensiero contemporaneo che coniò, o quantomeno sdoganò sul piano accademico e della cultura alta, proprio il concetto di post modernità. Secondo Lyotard la modernità è stata dominata dalla incombente presenza di grandi narrazioni (l’illuminismo, il marxismo, l’idealismo) dotate di una coerenza interna, di una carica di significato, di una capacità di organizzare e razionalizzare il consenso collettivo intorno a dei codici interpretativi della realtà e del potere riconosciuti e riconoscibili dalle masse. Si tratta di racconti consolatori utili a sostenere una visione organica e condivisa di una civiltà, e delle norme che la regolano, da parte dei consociati. Il mondo successivo alla caduta del muro avvenuta nel 1989 (anno coincidente, per una singolare sincronia, con quello della morte di Lyotard) doveva essere, nella logica sottesa al suo pensiero, un mondo orfano. Meglio, deprivato del tessuto narrativo pregno di senso e direzione proprio delle solide tradizioni filosofiche sviluppatesi dal Settecento in poi. La categoria del racconto, individuata dall’autore per descrivere come i nostri padri e i nostri nonni legittimavano gli enti e le istituzioni da cui ricevevano ordini e ordine in pari quantità, è affascinante. A maggior ragione perché la Grande Narrazione, a differenza di quanto il nostro aveva preconizzato, non è morta, è più viva che mai. L’era attuale è quella in cui, in massimo grado, si è inverato il concetto di narrazione collettiva legittimante, un’unica favola con personaggi scarsi e scarsissime idee di fondo. Mai come oggi ce la stiamo raccontando, per così dire, e ce la facciamo raccontare così bene da essere quasi tutti sprofondati in una sorta di ipnosi indotta, una ninna nanna allucinogena composta di due strofe e un ritornello: il Grande Sogno Comunitario, la Stella Cometa dell’Europa Unita, il Culto della Crescita e un intreccio drammatico dove, chiunque sia il cattivo (dal terrorismo alla crisi, dalla disoccupazione all’immigrazione), il buono ci attende sempre nella capanna in fondo al bosco per pronunciare a nastro dei mantra mentecatti (ma efficaci). Del tipo: ci-vuole-più-Europa, basta-con-i-populismi, rinuncia-agli-egoismi-nazionali, politica-dell’accoglienza. Volendo allargare il discorso si potrebbe assimilare il Grande Racconto Europeo alla Grande Narrazione Globalista che comunque pigia sugli stessi pedali: trionfo del mercato, eutanasia delle democrazie nazionali, caterve di burocrazia elitaria e un bel jingle di fondo per far digerire la sbobba a chi la deve mangiare. A ben vedere, solo in un senso siamo tutti postmoderni. Lyotard aveva ragione nell’individuare nelle fiabe il cemento della legittimazione del potere, ma non poteva immaginare che alle fiabe moderne ne sarebbe seguita un’altra, potenziata all’inverosimile. Quella sorta dalle ceneri dell’Ottantanove, dopo la quale la parola The End su tante illusioni della modernità (libertà e partecipazione in primis) ci sta da dio.

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