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Da Tangentopoli a Farsopoli a Juventopoli: l’italica “minusvalenza” del cappio espiatorio

Vogliono ri-distruggere la Juventus, ma ri-vivrà la Juventus. Le surreali accuse con cui la Giustizia sportiva sta provando a ri-fare la pelle al club bianconero ci consentono una riflessione più “alta”, o più profonda se preferite, rispetto alle miserrime alchimie di palazzo della nostra (retro)bottega calcistica.

Tuttavia, qui non ci importa tanto sviscerare le incolpazioni, in materia di plusvalenze o di “manovra stipendi”, che porteranno alla penalizzazione della società di Torino. Le prime sono un metodo, un mezzo, un rimedio per certi versi, utilizzato da tutte le società calcistiche a far data dalla finanziarizzazione spinta, e globale, del football. Le seconde erano una, del tutto legittima, modalità individuata dalla Juventus per far fronte allo tsunami Covid, alla sospensione dei campionati, alla conseguente sterilizzazione di ogni possibile ricavo. Manovra mai occultata né tantomeno usata per alterare la regolarità dei campionati.

Eppure, la Juve deve pagare (per tutti); possibilmente, così, en passant, dovrebbe anche sforzarsi di morire. Come già una volta accadde, nel 2006: l’inchiesta unidirezionale, e selettiva, attraverso la quale si provò –  con ottimi risultati per i feticisti dell’odio juventino-fobico –  a fare polpette della squadra più amata (e detestata) d’Italia. Ciò che più interessa, a parer nostro, è individuare le radici di un fenomeno tipicamente italiano (frutto di un malvezzo altrettanto italiano) e debordante dal piano meramente calcistico, o più latamente sportivo.

Esso riguarda, se allarghiamo un po’ la visuale, l’intero “assetto” politico, culturale e sociale del cosiddetto Belpaese. E ha a che fare con una tendenza connaturata all’essere umano in generale, ma spiccatamente e acutamente condivisa soprattutto dai nostri connazionali. È la vocazione alla giustizia sommaria, che è poi sinonimo di somma ingiustizia, sussumibile nella pratica biblica del “capro espiatorio”. Essa consiste nell’individuare una vittima predestinata – già potente, già vincente, già acclamata – e nel tradurla in ceppi per inchiavardarla alla gogna del pubblico ludibrio. Facendola poi transitare sotto le forche caudine dell’ignominia onde sopportare gli scandalizzati e canini guaiti dei “giusti” e dei “probi”. Ma, soprattutto, facendole scontare i “peccati collettivi” di un’intera categoria o addirittura di un’intera nazione.

Così, sotto l’accigliata regia di improvvisati Torquemada, taluni “peccati” (fino a un secondo prima, conosciuti e tollerati da tutti nonché da tutti, indistintamente e voluttuosamente, praticati) trascolorano, all’improvviso, in tenebrose reità da pena capitale. Ma, a pagare, in base all’implacabile “logica” di tale perverso algoritmo, non sono mai i molti, tantomeno i moltissimi, ma l’uno. È solo un individuo, o un partito, o un gruppo, a dover patire l’onta (e sperimentare i dolenti fulgori) del rogo, mai l’insieme.

Accadde così ai tempi di Tangentopoli quando il finanziamento illecito dei partiti divenne, dall’oggi al domani, una colpa sufficiente a giustificare la decapitazione di un’intera classe dirigente. Anche in quel caso, a pagare fu una “porzione” (il pentapartito) mentre la sinistra se la cavò con qualche graffio, consapevole di essere stata (altrove) preservata ed “eletta” a esclusiva beneficiaria di quel golpe bianco. Calciopoli, più appropriatamente definita Farsopoli, rappresentò l’applicazione dello stesso algoritmo alla società Juventus, senza alcuna seria prova di effettive pratiche corruttive e soprattutto nella consapevolezza, condivisa da tutto il sistema che tutto il sistema, e tutte le squadre, non erano meno “colpevoli” della Juventus. Il tutto dimostrato dalle intercettazioni da principio callidamente “stralciate” per essere riesumate solo a babbo morto.

E anche in quel caso, un’altra beneamata squadra (in particolare) fu designata a raccogliere i frutti, e i trofei, per lo più di cartone (ma, come usa dire, in Italia siamo di bocca buona), di quel coup d’état calcistico. Oggi, con la vicenda delle plusvalenze e delle manovre stipendi, ci risiamo. Una prassi collettiva, e tollerata, si fa crimine, e il criminale è sempre e solo uno. Guarda caso, la società che viene da nove anni di indiscussa superiorità sportiva, proprio come la Juve del 2006 veniva da anni di indiscutibili meriti acquisiti sul campo.

Ma l’impeccabile meccanismo di Tangentopoli, di Calciopoli, di Farsopoli, e oggi di “Juventopoli” non cambia. Il tratto, tipicamente italiota, dell’invidia e del livore nei confronti di chi “comanda” esige, periodicamente, il suo tributo liberatorio all’ipocrisia e all’isteria collettiva. È una sorta di vizietto  o, per restare in tema, di “minusvalenza” nazionale: la morbosa attrazione per il “cappio” espiatorio. E così immancabilmente – a tempo debito e con ricorrente e infallibile cadenza – tornano a rimbombare i lugubri rintocchi di quell’ancestrale, dozzinale, invidia che chiama i fedeli al “rito”.

È tutta una strepitosa pantomima sagomata sulla falsariga del medesimo clichè: chi vince troppo, chi ha troppo potere, chi troppo eccede deve essere immolato. Il che potrebbe anche starci se ciò accadesse per mondare un sistema corrotto dai suoi vizi epocali, in vista di una autentica rigenerazione guidata, e applaudita, dagli innocenti. E invece, è solo il solito “vizietto” all’italiana coltivato dai pavidi, dai rancorosi, dagli sconfitti. Il potente, o il vincente (oggetto della sorda stizza gelosa e del sordido malanimo maligno dei perdenti di turno e delle masse di aficionados di questi ultimi)  paga programmaticamente per colpe di tutti. E, soprattutto, paga da solo il salatissimo conto di un intero sistema.

Il che ci restituisce la cifra più intima, e intimamente ignobile, di un certo “tratto” squisitamente italiota. Un tratto “davvero” populista, nel senso più proprio, appropriato e deteriore del termine. E, dunque, ri-muoia la Juventus con tutti gli juventini. Il che sarebbe drammatico, se non fosse ridicolo. E se non fosse che, come sempre –  come per ogni catartica celebrazione di malafede “storta” e dolosa –  anche questa buffonata, fatti i suoi danni, passerà.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

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