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Il primo emendamento del mainstream: giuro di dire tutta la falsità, nient’altro che la falsità

Adesso che la Suprema Corte sembra aver detto la parola fine sui ricorsi di Trump (ma come disse quel tale: ride ben chi ride ultimo) andiamo ad analizzare come la Grande Stampa ci ha raccontato quanto accaduto dopo le elezioni del 3 di novembre. Il Presidente uscente degli Stati Uniti d’America ha tenuto, i primi di dicembre, un discorso nel quale non solo denuncia (lo aveva già fatto), ma documenta con tanto di grafici a supporto, le sconcertanti anomalie avvenute durante le operazioni di scrutinio in alcuni Stati chiave: centinaia di migliaia di voti accreditati tutti insieme, nel giro di qualche minuto, allo sfidante Biden e tali da sovvertire un trend assolutamente favorevole a Trump.

Ebbene, il fatto è semplicemente “non pervenuto” ai radar delle emittenti di massima diffusione del nostro Paese ed è anche sfuggito alla proverbiale attenzione dei giornaloni “seri”. Ne rimane traccia solo su qualche piattaforma di youtube. Nessun inviato è stato “inviato” ad approfondire, nessun opinionista è stato sollecitato ad esprimere una “opinione”, nessun direttore ha ritenuto opportuno “dirigere” il focus della sua redazione sul “j’accuse” di Trump. Vale a dire su una faccenda che – ove verificata – finirebbe per derubricare persino il mitico “Watergate” degli anni Settanta al rango di un furtarello da pollaio.

Insomma, quella che potrebbe rivelarsi la più monumentale frode politica della storia degli Stati Uniti, e quindi della storia delle democrazie occidentali, non merita di essere indagata e raccontata. Neppure se il “querelante” è il Presidente USA in carica. Allo stesso modo, cala un silenzio sepolcrale su altri scomodissimi dati di realtà. Senonché questi dati, ogni tanto, trapelano, persino su testate al di sopra di ogni (tremendo) sospetto di complottismo, populismo, sovranismo. Tipo l’Huffington Post dove, in data 2 dicembre, il giornalista Mauro Suttora scrive un pezzo dal titolo: “Trump ha realizzato il primo boom egualitario degli ultimi decenni”.

Nell’articolo, il cronista dà meritoriamente spazio a un’inchiesta del mensile progressista “The New Republic” a firma di Christopher Caldwell. Vi si legge dei risultati clamorosi, e clamorosamente “di sinistra”, realizzati dalla presidenza Trump nel 2019: disoccupazione quasi azzerata (al 3,7%) e aumento del 4,7 per cento di salari del quarto più povero della popolazione. Ma la vaga sensazione di vivere in un mondo sotto-sopra dove la sinistra è la vera destra e la destra fa le politiche di sinistra è incrementata da altre constatazioni sorprendenti: in nove dei dieci stati più facoltosi d’America ha prevalso Biden; in quattordici dei quindici più poveri, Trump.

Se poi “agganciamo” queste informazioni alla politica estera americana dell’ultimo quadriennio, contrassegnata da zero-guerre-zero (ma il premio Nobel per la Pace lo ha preso Obama) viene da chiedersi perché The Donald sia così inviso alla “sinistra” e alla sua sbandierata anima “pacifista”. Ma non è neppure questo il vero punto. Il punto è che viene sistematicamente impedito a larghe fette dell’opinione pubblica – quelle che ancora si limitano a una superficiale informazione ricavata dai canali “tradizionali” – di conoscere la verità delle cose.

Una ragione c’è. Se il famoso giornalismo indipendente è morto e defunto, il suo cadavere è più “vivo” che mai: uno zombie “posseduto” (e tenuto al guinzaglio) dai poteri che, invece, dovrebbero temerlo. Siamo tutti vittime del dominio di tentacolari agglomerati finanziari e mediatici i quali non raccontano il mondo, lo creano; e poi lo plasmano pure. Essi rappresentano la quintessenza di un’agenda dei lavori e delle priorità elitaria, oligarchica, conservatrice, anti-democratica, impopolare e fondamentalmente (nonché brutalmente) classista. Ciononostante, o forse proprio per questo, tali “editori” adottano la più classica delle scorciatoie manipolatorie: quella del lupo travestito da agnello. Infatti manifestano, e propagandano, le loro idee tramite una fittissima rete di canali, trasmissioni, opinionisti, intellettuali “democratici”, “liberali” e di “sinistra”. Lautamente pagati per dipingere come “libero”, “giusto” e, va da sé, “senza alternative” il tetro presente in cui siamo immersi. E, soprattutto, come “smart”, “green”, “easy”, il futuro che verrà. Ma solo se interpretato dagli “attori” protagonisti accuratamente pre-selezionati, volta per volta, dietro le quinte del palcoscenico politico ufficiale.

Forse per capire quanto ci siamo spinti “oltre” sulla strada della manipolazione della verità dobbiamo fare un salto indietro nel tempo. Ci può aiutare un film del lontanissimo 1997, “Sesso & potere (Wag the Dog)” diretto da Barry Levinson, con una accoppiata di mattatori da leccarsi i baffi: Robert de Niro e Dustin Hoffman. Il primo interpreta lo spin doctor del Presidente degli Stati Uniti d’America; il secondo, invece, un produttore di Hollywood. Quest’ultimo viene ingaggiato per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo a sfondo sessuale che rischia di travolgere l’immagine, e dunque la carriera politica, del Presidente a pochi giorni dalle elezioni. A questo punto l’imperativo diventa: distrarre l’opinione pubblica, costi quel che costi. Viene, pertanto, inventata di sana pianta, e su due piedi, la geniale “news” di un conflitto contro l’Albania, stato-canaglia accusato di ospitare e foraggiare terroristi.

All’epoca, l’idea sembrava talmente assurda da far derubricare la pellicola alla stregua di una “commedia” nera: una roba da ridere. Talmente “sciocca” da non poter ingannare neppure il più sprovveduto degli spettatori. Impossibile, quindi, catalogare la trama come un thriller poliziesco o come una spy story o come un film distopico o come un dramma politico. Invece, la realtà ha fatto passi così giganteschi – nel fondere il surreale con il reale, il comico con il tragico, l’inverosimile con il vero – da aver surclassato, sotto tutti i punti di vista, persino il plot di “Wag the Dog”.

Oggi, quella che poteva sembrare una trovata bizzarra, da commedia all’americana, si è trasformata nella regola di funzionamento canonica dei media di massa. In che senso? Nel senso che siamo quotidianamente bombardati dall’equivalente di dieci, cento, mille “guerre all’Albania”. E cioè da notizie sistematicamente “aggiustate” per fuorviare l’attenzione (e la consapevolezza del grande pubblico) dalla verità. Oppure accuratamente nascoste con la stessa ignobile intenzione.

In altri termini, il problema delle fake news è più che fondato, ma non nel senso comunemente raccontato dai media mainstream, bensì in quello specularmente opposto. Tradotto: non sono le piccole “centraline” della controinformazione a spacciare menzogne. Lo fanno, piuttosto (e serialmente), i grandi circuiti dei mass media cosiddetti “ufficiali” e sedicenti “attendibili”. Essi, da “cani da guardia della democrazia” – quali dovrebbero essere secondo i canoni deontologici del giornalismo “neutrale” di marca anglosassone – si sono trasformati in “mastini della bugia” oppure, se preferite, in “dobermann dell’insabbiamento”.

Abbiamo una sola auto-difesa, nei confronti del Grande Fratello Globale. Ed è una strategia contro-intuitiva rispetto a quanto ci verrebbe spontaneo credere (cioè, che tutto quanto ci dicono è, fino a prova contraria, vero). Di questi tempi, è molto più “igienico” partire dal presupposto inverso: molto di quanto ci raccontano è, assai probabilmente, una “guerra all’Albania”. E buona parte di quanto lorsignori ci raccomandano è, con altrettanta probabilità, utile per chi li foraggia mantenendoli in vita; e dannoso per noi. Ecco perché dobbiamo curare, alimentare e sostenere, come non mai, i piccoli virgulti della informazione (davvero) indipendente.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

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