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IL SIGNORE DELLE MOSCHE

signore moscheIl celebre romanzo Lord of the flies, Il signore delle mosche, del premio Nobel per la letteratura William Golding, racconta di un gruppo di ragazzini precipitati in un’isola sperduta e condannati a collaborare per sopravvivere. Nel libro un ruolo centrale lo gioca il mostro acquattato nel cuore della foresta che tutti temono senza averlo mai visto. Alla fine, il presunto demone si svelerà per ciò che è: il cadavere di un paracadutista impigliato tra i rami di un albero mosso dal vento.

Insomma, la maligna entità non è mai esistita eppure ha portato alla disgregazione di ogni forma di solidarietà collettiva trasformando dei ragazzi per bene in assassini. Prima che ciò accada, una delle guide carismatiche del gruppo, Jack, intuendo l’attrazione esercitata da questa mitologia del terrore decide di dargli corpo, volume e sostanza. Pianta una carogna di maiale, assediata dagli insetti, in cima a un palo e la trasforma nel totem da venerare: il Signore delle mosche. A ben vedere,  il capolavoro di Golding è una perfetta metafora dei nostri tempi. Anche noi, finiti nel ground zero della più grave e duratura crisi economica dell’Occidente, siamo soggiogati da un Signore delle mosche che è poi il peccato capitale e primordiale da cui non riusciamo (e forse non potremo mai) liberarci. La sua prerogativa prima è la stessa del mostro che atterriva i bambini dell’isola: non esiste. È una pura invenzione, ma è funzionale a controllare  le masse e a stritolare gli stati con il debito. Ci riferiamo al potere di creare denaro. Un alone esoterico circonda il discorso sulla moneta, il suo valore, la sua funzione, la titolarità e il diritto di emissione. È  un discorso non ‘dicibile’ dall’uomo della strada, demandato all’aggiornata versione dei Sette Savi dell’antichità e cioè gli economisti e/o gli esperti di finanza e/o i banchieri. Con il risultato che tutti pensano di sapere, ma quasi nessuno sa per il semplice fatto che nessuno può (osa) domandare. Come per i dogmi religiosi o per i temi classici della filosofia universale, non ci sono risposte. Il problema dei problemi, quello monetario, è opportunamente evitato nelle scuole primarie,  dolosamente taciuto in quelle secondarie e fumosamente occultato nei percorsi  accademici. Il Sistema ha costruito l’equivalente pedagogico dell’isola di Golding o, se preferite le canzonette, dell’Isola che non c’è di Bennato. Un posto dove il segreto è celato così bene che persino le nostre temerarie avanguardie intellettuali si arrendono. Eppure tutto ciò di cui abbiamo bisogno sono soldi, più soldi per rilanciare l’economia e per alimentare la famosa crescita. Ed è un incessante susseguirsi di dibattiti, esortazioni, ricette che cercano questi soldi dappertutto e con ogni mezzo: tagliando il debito pubblico o gonfiandolo, aumentando le tasse o diminuendole, riducendo il cuneo fiscale, mettendo patrimoniali, stimolando i consumi. Nessuno che vada a disturbare il manovratore per chiedergli di mostrare urbi et orbi il Signore delle mosche cioè il fantomatico diritto di cui un bel dì ci spogliammo e i relativi corollari tipo il  luogo dove il denaro nasce, l’esclusiva attribuita a chi lo produce e i criteri di questa generazione ex nihilo di banconote. È il tripudio dell’omertosa codardia che attanaglia i ragazzini di Lord of the flies. Gli è stato detto che il Signore esiste e perciò lo temono senza averlo mai visto. La sua forza bruta sta proprio nell’esistenza come ‘racconto’, ma non come ‘realtà’. La realtà è che, quantomeno dal 1971 (quando Nixon pose fine a Bretton Woods e alla convertibilità in oro del dollaro), i soldi non hanno alcun reale valore se non quello che noi stessi  gli attribuiamo credendo che lo abbiano. Il denaro è diventato una sorta di prodotto alchemico cerebrale. Lo ‘inveriamo’ dando fiducia alla carta colorata che esce dalle rotative di una banca, gli conferiamo uno spessore mentale che diventa tangibile quando usiamo i bigliettoni per comprare cose. E allora, se il sistema monetario è questo perché lo Stato dovrebbe indebitarsi per munirsi dei liquidi di cui scarseggia? Perché è questo che succede. Lo Stato, quando il piatto piange perché le tasse non bastano,  va a chiedere in prestito i quattrini o a chi li ha già (i famosi mercati onniscienti, onnipotenti, onnipresenti), oppure a chi detiene il potere sovrano di stamparli. Qui si annida la tara che accomuna la consapevolezza collettiva (dell’uomo medio per così dire) e il sapere alto o colto (dell’intellettuale impegnato). In entrambi i casi, il raziocinio dell’uno e dell’altro, del profano e del dotto, precipitano in una nebbia di concetti zoppicanti, di bufale scolastiche, di pregiudizi instillati. Di solito questa foschia è impastata di nozioni primitive tipo: ‘la banca dello stato emette i soldi in proporzione alla ricchezza prodotta dal paese’ oppure ‘alla carta moneta stampata corrisponde il valore aureo dei possedimenti dello stato’ e via di supercazzole. La realtà, nella sua sublime semplicità, è che il cosiddetto prestatore di ultima istanza, cioè il banchiere centrale, stampa a costo zero le banconote e le presta allo Stato che così si indebita del controvalore (inesistente) di quanto ricevuto e dei relativi interessi. Quando l’ignaro cittadino benpensante lo scopre, la prima reazione è il rifiuto come per ogni luttuosa rivelazione. La seconda è una domanda talmente elementare che se ne vergogna: se lo stato è sovrano per definizione perché diavolo dovrebbe farsi prestare i soldi da un entità terza che li stampa con la macchinetta? Perché non se li fabbrica da sé visto  che, dietro il denaro, nella post modernità, non c’è più nulla? Se la moneta prescinde da ancoraggi oggettivi e si nutre della fede di cui i cittadini utenti la caricano come la pila di Volta (ed è quindi un valore immateriale, prima psicologico che economico) perché dovremmo delegarne a una banca ‘indipendente’ la produzione e lo spaccio? È la stessa conclusione cui sono giunti fior di economisti a partire dal XIX secolo: da Georg Friedrich Knapp a Alfred Mitchell-Innes, da Warren Mosler a James Kenneth Galbraith le cui idee, però, faticano ancora a filtrare per penuria di profeti (con la lodevole eccezione, in Italia, del giornalista Paolo Barnard). È  questa, più che mai, la battaglia culturale cui siamo chiamati. Dobbiamo smetterla di credere sulla parola ai miti e andare nella foresta di simboli appresi per riappropriarci della verità. Per scoprire che il Signore delle mosche è solo un cadavere appeso a un ramo.

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