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LA MERDA CAPITA

FORRESTCi sono due modi di guardare il mondo: uno è quello riflettente, l’altro è quello critico. Potete paragonarli alle due celebri strade nel bosco, quella battuta da cani e porci e quella non frequentata da nessuno: da un lato, l’autostrada con stesa drenante, dall’altro, il viottolo infestato di gramigna. Bene, l’autostrada è il modo riflessivo, il viottolo è quello critico. Il modo riflettente, di gran lunga preferito dalla nostra classe intellettuale, consiste nel rispecchiare il mondo limitandosi a prendere atto di esso o, nella migliore delle ipotesi, a interpretarlo. Per questa frequentatissima scuola di pensiero, la realtà circostante, l’universo degli eventi, l’arena dei fatti esiste là fuori a prescindere dall’essere umano e l’essere umano ha solo che da prenderne buona nota. La funzione dell’uomo, rispetto al fluire delle cose nel tempo, è semplicemente quella di recepirle, trovando magari una maniera confortevole e comoda per adeguarvisi, per aggiustare la rotta, o correggerne la governance, come direbbe un Mario Monti qualsiasi. In questa visuale prospettica, le crisi economiche o le orde di immigrati (e ogni altro dramma economico o geopolitico) sono opportunamente derubricate al rango di eventi naturali (come la grandine estiva o la rugiada primaverile) totalmente avulsi dalle responsabilità di chi le ha generate. Idem dicasi per l’inestricabile gomitolo di relazioni tra gli uomini e gli stati e tra questi e la finanza globalizzata. L’economia domina il mondo non perché qualcuno ha premuto il bottone sbagliato, ma perché così vanno le cose. Questo approccio è il preferito dagli opinionisti di grido perché non punta il dito sulle distorsioni evidenti della baracca più di quanto lo si potrebbe fare contro le cause di un terremoto o di uno tsunami. La merda capita, diceva Forrest Gump. La merda capita, ribadisce l’intellighenzia dotta e sottile. Così come capitano l’Unione Europea, la globalizzazione dei mercati, la dittatura delle borse, il terrorismo suicida, le immigrazioni bibliche. La mentalità riflettente coglie l’occasione fortuita delle sfighe per togliere sistematicamente ai popoli le residue libertà, le prerogative sovrane, i diritti sociali elementari. Che dire, invece, dell’altro approccio, quello critico? Che è l’unica residua possibilità di salvezza. Critico significa analiticamente applicato a individuare la genesi di un fenomeno e le sue tare autentiche per denunciarle in vista di una reale trasformazione. Per ciò stesso, un critico è inidoneo a farsi contaminare dalle panzane di regime. È indisciplinato, riottoso, ribelle. Cioè indisponibile a digerire l’idea che la deriva planetaria verso il caos sia una occasionale malapianta da esorcizzare con una spruzzata rosa pastello di think positive. Per il modo critico, la realtà non è il teatro dove mettere in scena l’agenda dei padroni del mondo. È, invece e piuttosto, il frutto dell’agire umano ed è, quindi, costitutivamente suscettibile di essere, se del caso, radicalmente cambiata. Dunque, per il criticismo (passateci il termine), l’ignavia del ceto benpensante non è un peccato veniale, ma mortale. E va combattuta perché una via, piccola o grande, collettiva o individuale, per inceppare la matrice, esiste sempre. E va trovata e percorsa fino in fondo.

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