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Le Alici nel Paese delle Meraviglie

Le alici, o acciughe, sono pesci diffusi nei mari del Nord. Vengono inscatolate strette strette e poi mangiate. Noi siamo uguali, soprattutto quando ci beviamo la favola del debito pubblico. Quando se ne parla, ci sono due modi di affrontare la questione. Il primo è quello moralistico e acefalo dei ‘luogo-comunisti’ (ed è il modo delle alici) che suona più o meno così: il debito pubblico è la somma di tutte le scelleratezze di cui noi italiani ci siamo macchiati nel corso dei decenni: corruzione, malgoverno, sperpero, sprechi, caste, burocrazia.

Ne usciremo attraverso una ‘rieducazione cambogiana’ della mentalità italica, con la lotta all’evasione e alla spesa pubblica improduttiva e grazie al severo e occhiuto controllo dei burokrati europei e dell’intransigenza ‘tetesca’. Questa visione vagamente sado-maso secondo cui saremmo una razza di lazzaroni evasori figli di madre ignota bisognosi di una raddrizzata culturale la conoscete bene. E’ il racconto della crisi secondo la vulgata montiana, coi suoi buoni (i mercati, l’Europa, lo spread) e i suoi cattivi (gli euroscettici, i populisti, i pigs spendaccioni). Poi c’è il modo B, per così dire, quello di scorta, di cui, però, non fiata quasi nessuno perché è noioso (fatto di numeri e di dati non smentibili), ma soprattutto spietato. Quello che demolisce la fiaba che i supporter della tecnocrazia e delle ‘scelte civiche’ vi narrano ogni giorno daccapo. E’ una specie di versione ‘sapiens’ della nostra storia che rischia di svegliare dal suo sonno l’elettore ipnotizzato dalla trama A, quella ‘qualunquemente’ idiota. Tutti sanno che il debito pubblico è l’insieme dei soldi che, anno dopo anno, uno stato deve chiedere in prestito quando i denari che ricava dalle tasse e dalle imposte non gli bastano per coprire le spese. Quando le entrate sono meno delle uscite, lo Stato, come farebbe un cittadino qualunque, va a implorare mutui in giro. Ed ecco il deficit. Entrambe le voci si misurano in percentuali di pil. Il deficit si somma, poco a poco, gonfiando il debito come la rana di Fedro fino a livelli mostruosi, tipo quelli attuali. Ora, se facciamo una retrospettiva sul nostro passato, scopriamo delle cose interessanti. Per esempio che il debito pubblico, per parecchio tempo, non è stato un problema letale, anzi, non è stato neppure un problema. Nel 1960 era sotto il 40% del pil, ci credete? Roba da primi della classe, da secchioni ante litteram, da fare arrossire persino la signora Merkel, visto che oggi il limite ‘invalicabile’ stabilito dal trattato di Maastricht è del 60%, superato persino dai mangia crauti. Questa soglia rimase più o meno costante fino agli anni Settanta per poi assestarsi al 61% del pil all’inizio del decennio degli yuppies, gli Ottanta della Milano da bere, ricordate? Poi schizzò all’in su e, in men che non si dica, toccò il 119% del 1993. Primo mistero. Forse che nell’era di Gorbaciov e della Perestroika, del Moncler e dei paninari, siamo improvvisamente diventati dei forsennati scialacquatori? Perché, in effetti, è proprio in quei due lustri che si scava la voragine. Eppure lo stato sociale esisteva già dai tempi di faccetta nera, il centrosinistra era iniziato nel ’63, la crisi petrolifera ci aveva morso i portafogli e chiuso i rubinetti nel ’73. E allora? Possibile che tutte le nequizie della nostra mediterranea natura di spreconi si siano concentrate in così poco tempo? Ma non è finita. Ci imbattiamo in un’altra meraviglia se proviamo a rispondere alla celebre hit di Raf, ‘Cosa resterà degli anni Ottanta’. Infatti, grossomodo dopo la caduta del muro di Berlino, prende il via un miracolo di cui gli italiani non sono stati informati. Della serie: le cose che non ci hanno mai detto. Il deficit, per dirla col gergo degli economisti, passa in terreno negativo ovvero il ‘fabbisogno primario’ crolla dai cinque punti del 1981 ai meno tre del 1993. Tornando a parlare potabile, significa che, dall’inizio dell’ultima decade del secolo breve, lo Stato Italiano è virtuoso, cioè riesce a pagarsi le spese con ciò che ricava dalle tasse. Incredibile, vero? Esattamente il contrario di quello che ci aspetteremmo dopo aver ascoltato le cassandre del diluvio universale che ci fustigano notte e dì perché abbiamo un debito pubblico troppo elevato e siamo i campioni intercontinentali dello spreco eccetera, eccetera. Se non ci credete, fatevi portare un grafico dell’andamento del deficit dal 1990 in poi. Vedrete che siamo passati dal meno due al meno quattro al meno sette del 1996 per poi oscillare, fino all’inizio della crisi attuale, sempre sotto la linea dello zero. Questo significa che chiunque ci abbia governato è riuscito a pilotare la barca arrangiandosi con quello che aveva, pagando le uscite grazie alle entrate (ma non eravamo un popolo di evasori?). Bene, a questo punto è legittimo chiedersi dove sta l’inghippo. Se fino alla vittoria del Mundial di Spagna eravamo riusciti a contenere il famigerato debito sotto il sessanta per cento e se, dal rigore sbagliato da Baggio nella finale col Brasile del ’94 in poi, abbiamo saputo mettere insieme il pranzo con la cena, arrangiandoci da soli, com’è che il debito pubblico è esploso? Posto che è matematicamente dimostrato che non siamo una ghenga di sciagurate cicale come vorrebbero farci credere, cos’è accaduto nel frattempo? E’ successo che nel 1981 qualcuno, senza consultare il popolo bue, ha pensato bene di divaricare la Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro. Fino a quell’anno fatidico (in tutti i sensi), se lo Stato aveva bisogno di denaro non andava col cappello in mano dai mercati (come ora). Se lo procurava, per un pezzo di pane, in casa propria. Stabiliva un tasso congruo per i propri titoli del debito (Bot e similia) e poi se li faceva comprare dalla Banca di Stato, cioè da Bankitalia (che era obbligata per legge a farlo), al tasso che decideva lui e non a quello imposto dalle borse e dagli squali della finanza. Ecco perché, all’epoca, lo spread non esisteva: non c’era nessuno che potesse tenere la Repubblica Italiana per gli zebedei, imponendole dei tassi da paura per aver quattrini. La nostra beneamata Repubblica i piccioli se li faceva fabbricare in casa dalla propria banca. Elementare Watson, direbbe Sherlock Holmes. Talmente elementare che, nell’anno di grazia che dicevo, questo sistema venne scassato, si sancì il principio dell’indipendenza tra Tesoro e Bankitalia e lo Stato fu costretto a chiedere prestiti, in caso di bisogno, a quelli che sarebbero diventati (e che oggi sono, a tutti gli effetti), i nuovi dei della post-modernità: cioè i Mercati, vale a dire i grandi speculatori internazionali. Ma come in ogni giallo che si rispetti, il delitto perfetto deve avere un colpevole, un movente e delle conseguenze. Partiamo da queste ultime. L’uccisione della nostra sovranità monetaria sapete cosa determinò? Che la spesa per interessi si impennò più della Yamaha di Lorenzo passando da sei punti nel 1981 a dodici punti nel 1993. In altre parole, l’esplosione del debito pubblico italiano non è dovuta (tanto) al fatto che buttiamo i soldi in spese pazze e irresponsabili, quanto piuttosto al fatto che ci hanno scippato la nostra banca nazionale sotto gli occhi senza dircelo. Da qualche decennio, il nostro incubo non sono le spese eccessive, ma l’enorme quantità di denaro che dobbiamo drenare (impegnando pure la prima casa) per pagare gli interessi ai nostri creditori, cioè ai mercati. Quindi, chi vi dice che bisogna puntare (solo) alla riduzione della spesa pubblica improduttiva dice un quinto di verità, forse meno. Il resto, la verità vera, è che ci stanno massacrando di tasse per ripagare gli interessi sul debito. Cioè per tenere quieti i Mercati. Restano da trovare movente e colpevole: perché (e per colpa di chi) avvenne quella sciagurata operazione del 1981. In ogni caso, quando si riflette su tali arcani torna in mente la celebre frase di Henry Ford: “se la gente comprendesse il meccanismo di creazione del denaro, scoppierebbe una rivoluzione prima di domani mattina“. Forse quel momento non è più così lontano.

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