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BRANDELLI D’ITALIA

INNOStando ai pre-partita degli Europei di calcio, siamo davvero un popolo di patrioti pronti alla morte, pronti alla morte, l’Italia chiamò. Osservate l’attimo in cui, pomporopomporopompopon, parte la canzonissima tambureggiante e suggestiva di Mameli e il vessilo tricolore garrisce dal pinnacolo di uno stadio francese. Canta Buffon, canta Pellè, canta Parolo e canta Chiellini, canta Bonucci e canta persino Eder che più che italiano è brasiliano, ma chisseneimpipa. E canta Conte, ovviamente. E cantano gli spettatori paganti sugli spalti, la maglia azzurra indosso, l’elmo di Scipio di latta sul capo, le guance dipinte di bianco, di rosso e verdone. Insomma, un’orgia di indigeno orgoglio esibito in favore di camera. Che c’è di strano, direte? Almeno un paio di cose, diremo. Intanto, che una volta i calciatori mica cantavano, e neanche i commissari tecnici. Se ne stavano impettiti al centro del campo o in panchina e ascoltavano l’inno, silenziosi e compunti. Poi, per qualche fuggevole ragione, il Sistema radiotelevisivo ha deciso che non era cosa e ha dato pressione agli atleti pagati per divertirci. Così, i suddetti si dannano, emuli di Cristina d’Avena, a cantare a squarciagola con tanto più impegno quanto più temono, l’indomani, la rampogna di qualche gazzettiere nervoso. Il secondo aspetto, tragicomico, della vicenda è questo: la ridicola campagna per l’inno recitato in tv prima del match ha coinciso, grossomodo, con la parallela e inarrestabile diminuzione dei poteri sovrani della nostra patria vilipesa. Detto terra terra, negli ultimi quindici, vent’anni l’Italia si è spogliata di quasi tutti i poteri e le prerogative di uno stato sovrano (da quelli normativi a quelli bancari) e si è consegnata, mani e piedi, al guinzaglio inflessibile di padroni coloniali: le istituzioni Ue, le organizzazioni internazionali, i mercati, le borse. Siamo rimasti in mutande e a nessun italiano è venuto in mente di portare la mano sul cuore, di calcare un elmo metaforico in testa, di rivendicare il proprio statuto di Libero e Forte e Indipendente e di scendere in piazza, magari, a impedire lo scempio. Niente da fare. Eravamo troppo sintonizzati su Tutto il calcio minuto per minuto o ipnotizzati dalla Cempions Lig. Quando, però, arrivano i Mondiali e gli Europei, allora sì che la matrice ci vuole più fieri di Mel Gibson in Braveheart. E tutti cinguettano sul prato verde, e sulle gradinate e sul divano di casa e si sentono italiani. Ma de che? Ma che te agiti a fa’? direbbero a Roma. Dovremmo aggiornare anche la strofa. Non più che schiava di Roma Iddio la creò. Schiava, da sola, può bastare perché anche Roma, di fatto, lo è. E le nostre magliette, da blu Savoia, dovrebbero tingersi di rosso vergogna per   come ci siamo fatti defraudare, senza batter ciglio, del nostro patrimonio immateriale di fiera regalità nazionale. E invece tutti in piedi, come deficienti, a cantare che l’Italia s’è desta. Mentre non ha mai dormito così beatamente.

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