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L’Ascesa dei Controfattisti

Con l’ascesa in campo del Sig. Monti e del suo celebrato loden, del suo sorriso contenuto e aristocratico e del suo squisito humor anglosassone, del suo aplomb grigioscuro e della felpata allure con cui volteggia sul proscenio internazionale, ha fatto il suo esordio anche una figura retorica di nuovo conio: il controfatto.

Cucinare e servire un controfatto, in un dibattito o in un comizio, è abbastanza semplice: devi prendere un governo fallimentare, uno dei meno legittimati e più detestati che la storia del belpaese ricordi (se vi viene in mente l’ultimo siete in buona e abbondante compagnia). Poi devi aspettare che un cittadino indignato o un commentatore intellettualmente onesto o un opinionista appena più coraggioso della media ti ponga di fronte alla irrefutabile realtà dei seguenti dati macroeconomici: il debito pubblico che si candida per lo show dei record (da febbraio 2011 a gennaio 2012 è passato da 1.875,917 a 1.935,829 euro), la crescita esponenziale della disoccupazione giovanile, l’incremento lineare degli inoccupati complessivi (domande di disoccupazione a più 12,84% rispetto a ottobre 2011), il crollo dei consumi, l’inabissamento del PIL (meno 2,5% nel 2012), il lievitare dell’inflazione (più 3% rispetto al 2010), l’impennata della morsa fiscale (dal 42,60% del governo precedente al 45,30% di quello attuale). A questo punto, tu, che sei un Montiano di ferro (perché, che diamine, chi ha ridato lustro e prestigio e rispettabilità alla nostra sbertucciata immagine all’estero?) spari il controfatto. Se non ci fosse stato Lui, se i tecnici non fossero planati come semidei dall’empireo delle loro Accademie dove li avevamo ingiustamente dimenticati, staremmo ancora peggio: ci sarebbe stato il default, avremmo dovuto impetrare un’obolo salvifico al Fondo Monetario Internazionale, saremmo guardati come dei paria nel consesso della comunità europea. E via così, di catastrofe in catastrofe. Punto. Non devi aggiungere altro, magari solo un alzata di sopracciglio che lasci intendere quali e quante nozioni il database del tuo supercervello abbia dovuto processare per partorire un’obiezione tanto elevata, ma comprensibile anche a un beota come il cittadino indignato, il commentatore onesto o l’opinionista temerario. Voi direte che è troppo comodo cavarsela così, che il controfatto è un inganno bello e buono, che la storia non si fa con si se, che Berlusconi, Prodi, D’Alema sono stati a turno inchiodati dall’impietosità delle cifre che certificavano i loro fallimenti e anticipavano le loro cicliche debacle elettorali. Può essere, ma per il Sig. Monti e i suoi sodali non vale. Sono l’unico movimento a cui si concede il beneficio del controfatto al punto che autorevolissimi esponenti della società civile, anzi ‘civica’ come si chiama la loro lista, ricorrono a questo artificio linguistico come un coltivatore di mele si affida al diserbante. In modo sistematico, scientifico, seriale. E’ questo che conferisce loro l’impudente sfrontatezza di presentarsi agli elettori come alfieri di uno schema fallimentare. Un modello che non ha solo impoverito materialmente una nazione già prostrata, ma l’ha deprivata di energia, speranza e desiderio di sognare un futuro. Forse sarà per questo, per una sorta di lapsus freudiano, che alcuni dei vessilliferi della campagna montiana adorano ficcare l’avvenire ovunque, nei loro discorsi, nelle loro agende, persino nei nomi dei loro movimenti (Italia Futura, Futuro e libertà…). Del resto, le loro polluzioni oniriche da controfattisti di professione devono necessariamente procrastinare al domani il successo che non potranno mai avere nell’oggi. E sapete perchè? Perché le loro ricette sono imbevute nell’aceto che ha inquinato il mondo, la società e i fondamenti macroeconomici in cui ci troviamo a vivere. C’è un libro strepitoso, tanto poetico nel titolo (Il tramonto dell’Euro) quanto urticante e spietato nei contenuti che tutti i malati di contro factoring dovrebbero leggere per poi fare atto di contrizione. Lo ha scritto un grande economista italiano, Alberto Bagnai, in grado di unire al rigore concettuale e alla preparazione inappuntabile una dote che, in genere, latita fra i suoi colleghi: la chiarezza espositiva e il piacere divulgativo. Bagnai ha coniato un altro neologismo meraviglioso, quello di ‘luogocomunismo’, che designa il florilegio di baggianate, clichè, tic ‘culturali’ e luoghi comuni (appunto) di cui è intriso l’asfittico pensiero di taluni. Quelli, per intenderci, che sono andati in brodo di giuggiole quando Monti ha deciso di salire in politica e che vorrebbero inserire nel codice penale, accanto al reato di vilipendio alla religione, quello di vilipendio all’Europa. Bagnai passa in rassegna uno ad uno, demolendoli a colpi di razionalità e buon senso, tutti i (buoni) motivi per cui dovremmo uscire dall’Euro e tutte le (cattive) ragioni per cui ci siamo entrati. Ma smonta anche altre mitologie correnti tipo il tocco salvifico che l’Euro avrebbe avuto sulla nostra moribonda economia. Soprattutto ci ricorda che uno dei peccati originali della classe politica italiana è aver contribuito alla nascita di quella mostruosa creatura che è l’euro comune ed uguale (una moneta forte per tutti con conseguente cambio fisso) per economie disuguali e disomogenee che ha portato al disastro i famosi PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna). I cantori delle taumaturgiche proprietà di Eurolandia (gli stessi che oggi incensano l’ex commissario europeo Mario Monti) ci avevano a suo tempo spacciato l’atomica panzana per cui l’ingresso nell’euro avrebbe triplicato gli scambi commerciali intraeuropei permettendo ai paesi ricchi di trainare i poveri. Come no! L’unico beneficiario è stata la Germania e il commercio intracomunitario è aumentato di un ridicolo 9%. Senza l’Euro saremmo falliti! Urlano i controfattisti luogo comunisti. Non importa che la Svizzera, la Norvegia, la Turchia, la Croazia, l’Ucraina e altri sopravvissuti stiano lì a dimostrare il contrario. E neppure importa se tu ricordi loro il criminale scippo di sovranità che è stato compiuto da quando, a partire dal divorzio tra Bankitalia e Ministero del Tesoro avvenuto nel 1981 e passando attraverso lenti (e silenti) passaggi intermedi, gli italiani e gli altri popoli europei sono stati privati del primo e autentico potere di ogni nazione indipendente: quello di stamparsi la moneta e di comprarsi il proprio debito. Lorsignori hanno tenacemente perseguito un obiettivo lucido e spietato: far dipendere le economie dei nostri paesi non più dall’offerta di moneta di una banca nazionale interna e non condizionabile dai mercati, ma dai mercati stessi e dagli oligopolisti speculatori che ne reggono le fila. Da lì vengono i Montiani ed è in un posto ancora peggiore che stanno per condurci. Un andante affettuoso in cui la volontà popolare vale un soldo di cacio. C’è un pezzo straordinario del libro di Bagnai dove l’autore rammenta un episodio opportunamente dimenticato di quel paternalismo oligarchico e sostanzialmente a-democratico di cui sono intrise le elites eurocentriche votate a trasformarci in europei obtorto collo, a nostra insaputa e coi ma di pancia che sapete. Ci riferiamo a una dichiarazione resa da Jacques Attali, Consigliere di Stato per Mitterand e Presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, uno dei miti viventi di ogni controfattista che si rispetti, a un seminario di formazione organizzato da Segolene Royale, nel 2011: “Intanto, tutti quelli che, come me, hanno avuto il privilegio di guidare la penna che ha scritto le prime versioni del trattato di Maastricht si sono incoraggiati l’uno con l’altro a fare in modo che l’uscita non fosse possibile. Abbiamo accuratamente dimenticato di scrivere l’articolo che permettesse l’uscita (risate fra il pubblico)”. Che ridere vero? Più di una battuta british style di Monti. Un viaggio senza ritorno, troppo divertente. Eppure, mi vien da fare il controfattista malinconico: se non ci avessero bruciato i ponti alle spalle, magari saremmo davvero riusciti a cavarcene fuori.

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