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x factorParliamo dei format, cioè di quella categoria determinante per capire il sistema sociale in cui siamo immersi, le modalità e i modelli attraverso cui esso crea le mode che ci socializzano e i mood che intende inculcarci. Il format televisivo, lo dice la parola, è equiparabile al formato di un detersivo: un prototipo destinato a contenere qualcosa. Dopodiché, sul tuo fustino di detergente per abiti puoi incollarci le etichette in italiano, in arabo, in cinese, tanto lo vendi ovunque inscatolato nella stessa vaschetta. È la medesima polvere da lavatrice, spacciata a milioni di utenti diversi, destinata a lavarne le mutande con gli identici principii attivi. Cambia solo il linguaggio, cioè il segno grafico deputato a significare le proprietà del fustino che sbiancherà parimenti le camicie di tutti. Con il format della tele, idem. Prendiamo X factor o Tu si que vales. Per una volta, invece di assistere alla versione italiana, sintonizziamoci su quella tedesca o inglese o francese. Se ne fanno una in Nepal, in Burundi o nella Terra del Fuoco va bene uguale. Resteremo a bocca aperta nel constatare come il programma non è solo simile, è sovrapponibile in ogni dettaglio ai suoi cloni, di luogo in luogo: dal proscenio, dove si celebra il moderno culto del Talento, alle scenografie fosforescenti, dal marchio identificativo ai neon sul pavimento, dalle tipologie dei concorrenti alla composizione del pubblico, dai tic dei presentatori alle idiosincrasie dei giudici. Prendiamo questi ultimi: se il format ne contempla tre, uno simpatico e bonario, uno cinico e sarcastico e una posata e materna così essi saranno in Italia, in Germania, in Francia, in Burundi, in Nepal e nella Terra del fuoco, copie commutabili e indifferenziate di un’idea platonica di giudice che assume connotati universali, anzi globali. Il format esige che lo spettatore medio veda e senta una realtà media organicamente fungibile con quella vista e sentita in ogni altrove dove quello stesso format viene proiettato e digerito. Fine delle trasmissioni alternative, di ciò che ci rende specificamente locali o, come direbbe un anti-populista, angustamente nazionali. Guardare tre versioni del format, di tre Paesi differenti, in rapida successione, ci istruisce, in ordine al concetto di massificazione e mercificazione della società, meglio dell’opera omnia di Pasolini. Questa però è la parte già nota, e denunciata, della faccenda. In verità, dietro il fenomeno dei format c’è altro, di meno palese, ma forse di più importante. Posto che il formato del format, per così dire, ha la missione esplicita di divertire ‘senza frontiere’ e quella implicita di imporre la uniformità dell’uguale ai diversi (con la violenza subdola e inevidente del tubo catodico), qual è il suo obiettivo? Altrimenti detto, venghino signori venghino nel tendone del circo, ma ad apprendere quale lezione? La polvere che ci fanno sniffare dentro il fustino quali alchimie innesca nelle sinapsi del nostro cervello? In che cosa il format vuole renderci identici? Quale facoltà umana gli interessa prendere al laccio per gonfiarla di estrogeni, a discapito di ogni altra? La risposta non è nella nostra testa, ma più sotto, in un posto collocabile tra il petto e la cintura, dove allignano le emozioni. I format sono un’orgia di emotività esibita impudicamente davanti all’occhio del Grande Fratello. Viene esaltato e portato ad esempio chi dà mostra di sapersi ‘liberare’ dai propri impacci razionali squadernando, in un pianto a dirotto o con un riso isterico, il groviglio di sensazioni che lo abitano. I conduttori degli show, i giudici, i presentatori sollecitano lo sbocco del magma irrazionale a dispetto di ogni manifestazione, inopportuna e sgradita, di grigia materia grigia. Il quesito più abusato è: come ti senti? Oppure, cosa provi? E chi sbava obbedienza, dimostrando di sentire e provare in misura superiore alla media, guadagna i biscottini dal domatore, sotto forma di applausi. Chi si rivela inibito e freddo va biasimato e additato come poco evoluto, un capo opaco e in bianco e nero in uno stendino gremito di calzini e canotte a colori. Il Sistema ci incoraggia a rivelare ciò che la pancia ci dice invece che articolare, tramite un ragionamento compiuto e sensato, ciò che la testa ci detta. Ecco perché i concorrenti, poveri disgraziati immolati sulla pedana degli spettacoli, spesso sembrano sforzarsi di gemmare lucciconi dagli occhi, di arrossire come papaveri, di frignare quali immaturi mocciosi. Gli agnelli sacrificali sanno che la Matrice pretende emozioni e non tollera distrazioni di natura intellettuale. Prendete un format qualunque, il discorso non cambia. Come in ogni altra stanza di fermentazione dei comandamenti del regime, la regola aurea è: devi essere te stesso, ma l’esortazione, ineluttabilmente, reca un sottotesto non dichiarato eppure coercitivo che recita, più o meno, così: ‘liberati’ delle tue sovrastrutture intellettuali e fai fluire il cuore che è in te. Il format ha il compito di spingere a tutta sul pedale dell’emotività e del sentimento e di rottamare un’altra facoltà eminentemente umana: la ragione. Senonché, sulla ragione si regge la più preziosa delle eredità: la capacità di porsi domande, dubbi, interrogativi. Che si traduce poi nell’attitudine a speculare sulla natura delle cose, sulle loro cause recondite, sugli effetti che ne discendono, sui motivi del nostro e dell’altrui agire. Filosofia, in una parola. I format hanno il compito non rivelato di uccidere la filosofia e, per farlo, devono esaltare al massimo grado la reattività emotiva e sentimentale delle cavie. Il giusto sta nel mezzo, ma ai format non importa il giusto, ma il funzionale ai bisogni della Matrice che li ha concepiti: agevolare e assecondare il consumo e pascolare le greggi. Ed è molto più facile persuadere e instradare alla dissoluzione delle identità un esercito emotivo che non uno raziocinante. La ragione destruttura le menzogne, l’emozione, se rettamente indirizzata ed elicitata, le beve. Addirittura, le brama. L’aspetto paradossale di questa situazione è che un’epoca storica freddamente progettata da una cultura sommamente illuministica e razionale, finalizzata a tarare e perfezionare i meccanismi della produzione e del consumo, sta diffondendo, tra gli utenti e i fruitori delle sue gioie meccaniche, una cultura ‘romantica’. L’afflato irrazionale dei sudditi è strumentale al calcolo razionale dei re. E i re ragionevolmente disegnano un’architettura ‘culturale’ dove la ragione non c’entri. Non ci entri. Dev’essere tutto un ribollire di slanci, di abbracci, di rossori, di lacrime, di risate, di sghignazzamenti. Il popolo è addestrato a emozionarsi perché, tramite l’emozione, esso viene mosso come rivela l’etimologia del termine. Se poi le e-mozioni accettate e teleguidate dal Sistema sono le stesse dappertutto, ecco approntato uno straordinario marchingegno di produzione e consumo di cose nonché la ri-produzione di volizioni atte a implementare, daccapo, la produzione e il consumo di cose. Un circolo vizioso dove piangere e ridere non sono più meravigliose specificità di un essere dotato di raziocinio, ma i due anelli del guinzaglio con cui l’umanità viene portata a spasso. Forse per questo gli antichi ci misero in guardia con l’antico detto del riso che abbonda nella bocca degli stolti. Una risata ci seppellirà.

 

 

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