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MOUSHIWAKE ARIMASEN

atomicaUno che ha vinto il premio Nobel per la pace non può lasciarsi sfuggire l’occasione di visitare Hiroshima e Nagasaki, epicentro dell’epicentro di ogni ecatombe criminale della storia. Obama lo sa e quindi ci va, perché Obama ha vinto il premio Nobel e deve fare qualcosa di simbolico per la pace e contro il terrorismo che semina vittime civili nelle capitali occidentali. È proprio per questo che Obama non parla, soffermandosi davanti al cenotafio dei martiri dell’atomica. Ci vogliono gesti solenni, non chiacchiere. Il suo spin doctor lo ha catechizzato (‘atteggia la faccia a un compunto dolore inespressivo e, soprattutto, solo parole di circostanza, mi raccomando, che qua come parli sbagli. Se proprio devi dar fiato alla bocca, fallo solo quando te lo dico io’). Obama si adegua a malincuore perché far tacere un premio Nobel per la pace davanti alle vestigia del genocidio più veloce di tutti i tempi fa girare i cosiddetti. Comunque, Mr. President abbraccia un hibakusha (uno dei sopravvissuti all’olocausto) di nome Mori Shigeaki, depone una corona di fiori, e si sofferma in religioso silenzio davanti al ground zero del Male. Lo spin doctor, intanto, si frega le mani (dai che gliela facciamo), e gli detta all’auricolare le famose frasi di circostanza: “Veniamo a riflettere su una forza terribile scatenata in un passato non lontano, la morte cadde dal cielo e il mondo cambiò”. Gelo tra i presenti. Obama, a mezza bocca, piega il mento verso il microfonino appuntato al colletto della giacca e bisbiglia: “Qua butta male, mi guardano come se fossimo stati noi”. Lo spin doctor non fa un plissé e gli radiocomanda un altro slogan: “Abbiamo una responsabilità comune di guardare in faccia la storia”. I pochi giapponesi autorizzati non applaudono. Di nuovo, Obama si china e sussurra: “Credo non gli vada giù il plurale maiestatis”. Lo spin si asciuga una goccia di sudore e spara l’ultima cartuccia: “Per i paesi con armi nucleari c’è la responsabilità di ridurre le catastrofi”. Obama recita il copione e gli pare vagamente di ricordare che il programma americano di rafforzamento dell’arsenale atomico ammonta suppergiù a mille miliardi di dollari, ma sono stime di Greenpeace quindi è sicuramente falso. A un certo punto, quando l’ha quasi sfangata, un bimbetto di otto anni, forse il bisnipote di Mori Shigeaki, si intrufola tra gli addetti alla security e strattona la giacchetta a Barack ripetendogli una cantilena in cui spiccano cinque parole: sumimasen, gomen, moushiwake arimasen, warui. Lo spin doctor scatena l’inferno, le forze speciali agguantano il presidente, lo trascinano a forza fuori dal perimetro del parco del cenotafio e lo caricano di peso sull’Air Force One. Solo una volta a bordo, il premio Nobel, riavutosi, trova il fiato per chiedere ragione di tutto quel casino. Il traduttore spiega, imbarazzato: ‘Il bambino voleva che lei dicesse sumimasen, gomen, moushiwake arimasen, warui. Sono quattro modi diversi per chiedere scusa, in giapponese, presidente’. Obama si slaccia la cravatta, si sbottona la camicia, si passa un palmo sulla fronte, si lascia cadere di peso sulla poltrona in pelle umana, fa okay col pollice e ghigna, sorseggiando un Campari: “Well done, guys, well done. Siamo una squadra bombastica.”

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