Post

Interesse Nazionale

È possibile tentare un’analisi pacata, e profonda, degli ultimi eventi post elettorali? Una lettura che travalichi, per un attimo, i dati contingenti della polemica spicciola e delle baruffe chioggiotte tra forze politiche antagoniste? Insomma, è pensabile decifrare l’oggi alla luce di un passato più risalente delle roventi settimane che abbiamo alle spalle? Volgendo lo sguardo a ritroso e allungandolo fino alla metà del Novecento, almeno, e quindi cimentandoci in una disamina di carattere storico, sociologico (di costume, addirittura) saremmo in grado spiegare le reazioni (bipartisan) scomposte, persino isteriche, suscitate dal tentativo di 5 Stelle e Lega di formare il governo che sappiamo? Secondo noi, sì. Una chiave c’è. Ma per individuarla dobbiamo partire da un dato di fatto inconfutabile. Il contratto Di Maio-Salvini – per quanto mal fatto, per quanto perfettibile – è connotato da alcune direttrici di fondo: la rivendicazione sovrana, a costo di scontentare la debordante invadenza dei poteri trans-frontalieri (europei in primis) e il benessere delle classi medio-basse bastonate della crisi, a costo di inimicarsi l’ingordigia della finanza speculatrice e le mire dei finanziatori (e beneficiari) dell’invasione di migranti. Se potessimo sintetizzare in due parole la faccenda, potremmo farlo con: interesse nazionale. Ha un costo questa priorità? Certamente sì, come qualsiasi progetto politico degno di questo nome e a differenza delle arcinote riforme a costo zero “senza oneri per la finanza pubblica” tanto di moda (come se fosse possibile riformare alcunchè ‘a gratis’). Eppure, davanti alla prospettiva di poter ridare fiato (e dignità) a un paese mortificato da decenni di servaggio, tutti gli osservatori più accreditati puntano il dito sul prezzo discutibile della rivoluzione alle viste anziché sui suoi benefici auspicabili. Perché? Il motivo va ricercato nella costitutiva vocazione anti-nazionale delle nostre tradizionali famiglie politiche: da quella democristiana a quella comunista a quella liberale. Tutte, indistintamente, avvezze a trafficare per conto terzi piuttosto che a sgobbare per conto degli italiani. I terzi potevano chiamarsi Stati Uniti, Vaticano o Unione Sovietica, la musica non cambia. Siamo (stati) abituati a coltivare relazioni di servile pavidità, di untuoso opportunismo, di diplomatica sottomissione, e per così tanto  tempo, da non saper concepire anche solo l’idea di poter fare, una buona volta,  a testa alta e di testa nostra. Basti pensare alla bandiera del defunto PCI: il drappo rosso sovietico sotto il quale sbordava, con vergogna, un ciuffetto tricolore. O all’indimenticabile, ed icastico, motivetto di Alberto Sordi (tu vuò fa’ l’americano ma sei nato in Italy). Ecco, l’Unione Europea ha supplito al compito strategico (sul piano antropologico e psicologico prima ancora che politico) di fornire un dominatore comune, e un comun denominatore, a una classe politica e intellettuale terrorizzata dalla prospettiva di trovarsi alla guida di un popolo libero. Per questo, oggi, sono tutti ferocemente ostili a chiunque si sogni di mettere in discussione la nostra secolare natura di nazione subalterna.

Potrebbe Interessarti Anche

Nessun Commento

    Lascia un commento

    Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.