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CHE FINO ALLA MORTE

attaliAl grido di ‘Fate presto col biotestamento!’, la Matrice ha battuto un colpo. L’approvazione della riforma ‘strutturale’ è avvenuta in un clima abbastanza surreale. Da un lato, baci&abbracci, lacrime persino, dei sostenitori inebriati per l’ennesima vittoria della ‘civiltà’. Tra questi ultimi abbiamo notato anche molti accaniti aficionados dell’aborto, cioè – tecnicamente parlando – della morte assistita di esseri umani troppo piccoli, troppo deboli, troppo afoni per fare una DAT (una dichiarazione anticipata di trattamento). Insomma, troppo infantili (mettiamola così) per poter acconsentire o rifiutare la pena capitale inflitta loro da parte di adulti consapevoli, con il patrocinio di una comunità ‘civile’ e con quello, ineccepibile, di una legge, ça va sans dire, ‘giusta’ proprio in quanto ‘legale’. Ma supponiamo pure che la nuova normativa che si occupa non dell’inizio vita, per sopprimerlo, ma del fine vita, per agevolarlo, sia in qualche modo equa nella misura in cui rimette nelle mani, e nella testa, del singolo la decisione incondizionabile sulle sue sorti di malato terminale. Supponiamo, altresì, che le sparute resistenze a questo provvedimento siano solo i colpi di coda ideologici di qualche cattolico integralista. Una volta fatta piazza pulita di tutti i dubbi, i ripensamenti, le perplessità circa la ‘doverosità’ del biotestamento, resta pur sempre un interrogativo interessante sul tappeto. Ed esso riguarda la china. Quale china? La china della nostra attuale civiltà. È sostenibile, o no, che – a prescindere dalla contingente necessità, e pure giustezza, della legge appena licenziata – quest’ultima rappresenti un ulteriore tassello verso la familiarizzazione diffusa, di massa oseremmo dire, con il concetto di ‘disponibilità pubblica’ della morte? Ci spieghiamo. La morte è erogabile dallo Stato in due circostanze: come pena per un delitto o come sollievo da una pena. Nel primo caso si chiama patibolo, nel secondo eutanasia. I contestatori del biotestamento lo avversano proprio perché, secondo la loro (bigotta? Arcaica?) prospettiva, in fondo allo scivolo si intuiscono le inquietanti malie della dolce morte.  E se, in realtà, l’eutanasia fosse solo un’altra stazione del viaggio, e non il capolinea? Se poi la china si inclinasse ancora e – di battaglia ‘civile’ in battaglia ‘civile’ – ci portasse in territori per ora inesplorati, eppure intra-vedibili da chi ha lungimiranza sufficiente (oppure cointeressenze adeguate con i capitani ‘coraggiosi’, nonché padroni del mondo) per presagirlo, quel futuro, con lustri e lustri d’anticipo? È un personaggio, in particolare, ad elicitare questa suggestione. Si chiama Jacques Attali, padre nobile dell’ignobile Unione europea, nonché consigliere di Mitterand, e avvezzo a frequentare le elites nei cui laboratori fermentano le ‘guide-lines’ del domani. Ebbene, egli ebbe a dire, nel 1981: “L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali del nostro futuro. In una società capitalistica, delle macchine permetteranno di eliminare la vita quando questa sarà insopportabile o economicamente troppo costosa”. Chapeau. Un uomo così, prima di toglierti la vita, ti toglie anche le parole di bocca.

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