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DON MATTEO

DON MATTEOPer anni ci siamo chiesti se quella di Romano Prodi fosse un’ascesa determinata più dalle qualità innate, cioè genetiche, per capirci, oppure dall’affinarsi laborioso e inesorabile del talento. Non è mica un dubbio da poco, sapete. Ha a che fare con i rovelli della psicologia del secolo breve. Vi si sono applicati fior di cervelli. Insomma, prendete i comportamentisti, esponenti di una delle correnti di spicco della prima metà del Novecento. Per Watson l’uomo è il prodotto delle sue esperienze, i bambini nascono senza istinto, intelligenza, predisposizioni. Egli diceva: “Datemi una dozzina di bimbi sani, ne farò dottori, magistrati, artisti, indipendentemente dalle tendenze e inclinazioni”. Ma ci sono anche gli innatisti, coloro che spingono molto di più sulle doti, appunto, innate. Secondo questa scuola, chi ha successo deve ringraziare madre natura più che non gli insegnamenti della sua madre naturale. Noi, osservando l’irresistibile levitazione di Prodi nell’empireo dei grandi della storia, eravamo tormentati dai dubbi. Come fa il personaggio a inanellare una corona d’alloro via l’altra in modo così sistematico e veloce? E professore, e presidente dell’Iri, e capo dell’Ulivo, e leader dell’Unione, e boss della commissione europea. Nelle giornate di ottimismo a prescindere ci sentivamo behavioristi (comportamentisti): egli ha sfondato perché si è dato da fare, perché ha avuto degli ottimi mentori, perché ha eseguito i compiti per casa, perché ha frequentato master d’elite. Perché, perché, perché. C’era sempre un perché a giustificare la nostra risoluta convinzione che tutti un giorno, con la debita dose di lavoro, potessero avvicinarsi a lui. Poi, certi giorni, il cielo era plumbeo, magari pioveva e l’umore volgeva al peggio. Allora pensavamo che fosse tutta una questione di classe attinta agli astri: quel superbo portamento, quel carisma peculiare, quell’eloquio da retore antico, quella precisione sintattica e lessicale, quell’acume astratto applicato al concreto della nostra vita quotidiana (da cui scaturì il famoso rapporto euro/lira tutt’oggi celebrato). Ebbene, in quelle giornate, ci pareva che tutte queste doti di Romano Prodi fossero solo un dono celeste per cui al all’uomo della strada non sarebbe mai stato concesso, neanche in virtù di una solerte abnegazione, di avvicinarglisi. E ora, direte? Dopo anni di battaglie vinte e di trionfi celebrati dal nostro, sempre cavalcando l’alato destriero della Riuscita, il responso qual è? Oggi, purtroppo, abbiamo capito tutto, leggendo di quel tal Matteo Prodi, nipote di Romano, parroco di Ponte Ronca, frazione di Zola Petrosa, il quale ha scritto all’Ansa suggerendo di smetterla con il vetusto cerimoniale cristiano della benedizione, con acqua consacrata, delle scuole e degli uffici, un rito troppo conflittuale e problematico. “Invece che qualche goccia d’acqua,” scrive Don Matteo, “perché negli uffici e nelle scuole non portiamo qualche ovetto?”. Uova per tutti, insomma. Dopo Monsignor Cipolla che, a Padova, esortava a mettere il burqa ai presepi, ecco don Matteo che, in Emilia, suggerisce di sostituire l’acqua santa col fondente extra. Doppia morale. Primo: Matteo Prodi vescovo subito. Secondo: basta dubbi sui Prodi. Geni si nasce.

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