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La profezia di Marx

Siamo a fine anno, tempo di oroscopi, di auguri, di auspici. Sia l’oroscopo sia l’augurio sia l’auspicio sono messaggi in bottiglia lanciati nel futuro. In altri termini, delle micro-profezie con cui scaramanticamente speriamo di tirare l’avvenire per la giacchetta portandolo dalla nostra parte. Ora, parliamo di profezie più serie –  quantomeno nelle intenzioni –  cioè delle profezie rese da soggetti i quali non scherzano affatto attorno al tavolo imbandito a festa del cenone di San Silvestro. Essi – o per una investitura divina, e quindi soprannaturale, o per una motivata convinzione scientifica, o infine in virtù di una facoltà  paranormale – quando prefigurano il domani, sono assolutamente seri. Solo che poi il dipanarsi effettivo degli eventi storici si incarica di confermare o di smentire la loro pre-visione. Ebbene, dopo quanto tempo una profezia senza data di scadenza può reputarsi finalmente scaduta? Dopo quanti anni è lecito smascherare il bluff di chi ha vaticinato un’era lontana (magari di pace, giustizia, benessere e prosperità)? Centosettant’anni bastano? Perché, sapete, quello che va a declinare è giusto il centosettantesimo anniversario di una delle profezie più celebri di ogni tempo, quella formulata da Marx, nel 1848, con il Manifesto del partito comunista. Karl era persuaso che, per effetto di una ineluttabile convergenza dialettica dei vettori del processo storico, il capitalismo sarebbe definitivamente tramontato per partorire, infine, la società senza classi. Ad oggi, possiamo serenamente affermare che è accaduto esattamente il contrario. Non solo il capitalismo non è morto, ma si è evoluto, trasformandosi in turbocapitalismo, o in ordoliberismo, se preferite.

E tuttavia, se Marx ha (per ora) fallito nel suo pronostico, c’è una formula, dimenticata, della sua analisi critica del sistema che, rispolverata appena, è perfetta per descrivere le dinamiche perversioni dell’era attuale. Ci riferiamo alla classica DMD’ che certifica il modus operandi del capitalista: egli parte da una somma di denaro (D), la converte in merce (M) che poi impiega per ottenere più denaro (D’). Secondo il filosofo di Treviri, questo apparente miracolo era spiegabile con il fatto che il capitalista sottopagava il lavoratore rispetto a quanto costui produceva. Quel ‘di più’ egli lo definiva pluslavoro ovvero, dal punto di vista del produttore, plusvalore.

Oggi accade lo stesso, su vasta scala, non per il sistema capitalistico in senso stretto, ma per il sistema monetario e finanziario in senso lato. Quest’ultimo mantiene scarsa l’immissione di liquidità nell’economia reale, scatena così una competizione selvaggia dei consociati per accaparrarsi le briciole, estraendo energia, valore, lavoro dagli sforzi delle masse (sfruttate come lo erano i proletari al tempo di Marx) e poi utilizza i beni tangibili fabbricati (o i servizi resi) dall’homo faber (il famoso PIL) come leva per ottenere sempre più denaro. L’immane mole di derivati virtuali che arricchisce una irrisoria elite sta in piedi solo grazie alle ipoteche, ai pegni, alle più svariate forme di garanzia, rappresentate dalle “cose” realizzate dai cittadini servi o dai titoli di stato prodotti dalle nazioni colonizzate. Quindi, Marx ha forse errato come profeta, ma come analista delle dinamiche dello sfruttamento ci ha preso in pieno.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

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